Phenomenological Reviews

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257438

Il segno lasciato

Sergio Lanza

pp. 291-294

Lines

1Pensavo mi sarebbe stato più facile parlare del mio rapporto con Giovanni Piana (per me solo ‘Piana’, di Giovanni ne conosco troppi), invece mi accorgo che non lo è. Fatico a mettere in un ordine sensato i tanti frammenti di memorie che mi riconducono al nostro rapporto, lungo 35 anni, e capisco che ripensare a lui, a quello che mi ha dato, a ciò che l’incontro con il suo modo di vedere il mondo ha rappresentato per me, significa in qualche modo portare alla luce qualcosa di molto profondo della mia esistenza. E non è cosa che sono abituato a fare.

2Gli anni dal 1984 al 1993, per me decisivi nella formazione, sono se|gnati rispettivamente dal primo esame con lui fino al suo invito a partecipare a quell’appassionante avventura del pensiero che fu il ‘Seminario permanente di filosofia della musica’, che proprio nel suo anno di nascita ospitò l’esecuzione del mio trio per archi Lamento per un amico. Credo che tutti quelli che collaborarono al Seminario concorderanno sul fatto che i suoi anni migliori furono quelli, dal 1993 al 1999, che videro Piana animatore in prima persona anche se, bisogna dire, l’imprinting che egli era riuscito a dare a quell’esperienza collettiva, così vitale per i giovani studiosi, nella sua accogliente apertura e curiosità intellettuale, rimase ancora attivo per oltre un decennio. (Ricordo ancora l’impressione che mi fece una sua frase dei primi anni Novanta rivolta a noi giovani del Seminario: «compratevi il modem!» – una frase che metteva a nudo un nostro ritardo aggravato dallo scarto generazionale di chi, avanti con gli anni, aveva però già afferrato la grande potenzialità culturale di Internet).

3La frequentazione delle sue lezioni generava in me, studente di filosofia ma anche studente di composizione al Conservatorio, quel tipo di entu|siasmo che ti mette in moto qualcosa dentro e ti spinge oltre. Sentivo che le sue idee – espresse con una linearità e chiarezza che finì presto per apparirmi un segno di forza, paragonata alla compiaciuta oscurità di altri – aprivano la mia giovane mente, che magari il giorno prima aveva seguito un seminario di tecniche compositive con Brian Ferneyhough, e un’ora dopo si sarebbe curvata sul foglio pentagrammato, portandola a un felice, raro cortocircuito di idee. Cominciò allora a formarsi in me quella sorta di sguardo obliquo, che mi portò spesso a deragliare, distraendo il pensiero da ciò che stavo leggendo (dapprima gli appunti delle sue lezioni su ‘Suoni e colori’, poi i suoi Elementi, poi la Filosofia della Musica, i Barlumi e via via tante altre cose sue e di altri), portandolo verso il lavoro compositivo che svolgevo contemporaneamente. Qualcosa scattava, e un’idea, il ragionamento su una figura, su una forma processuale o la disamina di una struttura, si trasformavano in me, attraverso un processo di astrazione che solo molto più tardi provai a mettere a fuoco, in una materia che andava ad alimentare a un tempo le mie riflessioni sulla musica e la mia ricerca compo|sitiva, una ricerca che cominciò a trovare una sua identità a partire da quelle riflessioni e finì per rimanere con esse intrecciata indissolubilmente. Lentamente capivo che Piana non mi stava offrendo solo un’apertura in direzioni molteplici, dalla filosofia in senso stretto, all’antropologia ed etnologia, dalla psicologia della percezione alla matematica e all’estetica (per citare solo gli ambiti che mi hanno personalmente toccato), Piana mi offriva un approccio alle cose, una lente, uno sguardo, che risultava ai miei occhi – alle mie orecchie – straordinariamente potente. Questa attitudine ad interrogarsi, sostando senza fretta sulla soglia delle idee prima di entrarvi dentro e usarle, oppure l’indagine orientata verso «il riconoscimento di una trama di rapporti strutturali direttamente afferrabili sulla superficie fenomenologica» (Piana 1991, 246) sono diventati per me preziosi modelli di pensiero che ho poi provato ad applicare in ambito teorico musicale e analitico e, laddove mi è stato possibile, anche nel mio insegnamento in Conservatorio.

4Ma naturalmente non è stato soltanto nell’ambito del metodo che Piana ha lasciato su di me un segno profondo. Il suo lascito più grande è nella straordinaria messe di idee riguardo la musica, nella ricchezza di aperture prospettiche, riunite in una costellazione critica in movimento continuo e tenute insieme da una unitaria e coerente visione. In un elenco parzialissimo e improvvisato mi viene in mente l’affascinante disamina della valo|rizzazione immaginativa e il suo ruolo funzionale alle domande sul senso – sulle direzioni di senso; la relazione ambigua – e per questo ricchissima – tra il suono e la materia, così lontana, per certi aspetti, e vicina per altri; l’attenzione orientata verso dimensioni del fatto musicale apparentemente periferiche, come il ‘cromatismo’, o esteriori, come la dinamica e il timbro, sondandone le implicazioni espressive e le potenziali direzioni di senso. E ancora, il ripensamento del concetto di ritmo e, al suo interno, il rapporto duale battere/levare innestato dentro il dinamismo gestuale suono/silenzio e quindi presenza/assenza; la messa a fuoco della temporalità musicale all’interno di una riflessione sulla processualità del suono prima ancora che della musica; la riformulazione dell’opposizione consonanza/dissonanza in un quadro di tensione e processualità interna allo spazio sonoro in cui svolge un ruolo fondamentale la differenza continuo/discreto; la ricerca di un piano prelinguistico e precategoriale quale punto di partenza e di vista privilegiato; il costituirsi del senso musicale ancora prima del suo stratificarsi nella dimensione linguistica, grammaticale e stilistica. Queste straordinarie intuizioni – assieme a tante altre che non ho tempo qui di menzionare – hanno costituito altrettante incursioni che Piana ha condotto, prima con lezioni, poi con la sua ricchissima serie di saggi, in territori, almeno in Italia, storicamente sostanzialmente riservati agli ‘addetti ai lavori’ (i quali non perdevano certo tempo su questioni di principio e di senso). Queste incursioni, dunque, mi portarono rapidamente a mettere in discussione tutto l’impianto conoscitivo che mi era stato trasmesso, soprattutto nella prima fase, dal Conservatorio. Era come un ritorno indietro, alle origini, attraverso un percorso di ripensamento critico dei concetti fondativi del sapere musicale. Questa operazione così coraggiosa e radicale, mentre mostrava con una chiarezza esemplare l’applicazione del metodo fenomenologico, mi proiettava su un terreno conoscitivo che risultava paradossalmente nuovo per un musicista: la sua visione mi apparve a un tratto come una strada assolutamente necessaria per fondare la ricerca di un proprio linguaggio musicale. Gradualmente, attraverso una lenta dige|stione, alcune di queste sue idee, di questi lampi, finirono per trasformarsi dentro di me in idee musicali e ancora oggi il mio modo di annotare i pensieri destinati a prendere una forma musicale concreta, risente del suo linguaggio, delle sue opposizioni dialettiche, della sua visione.

5Il tempo fece poi crescere tra noi un grande rapporto personale. Appena potevo gli facevo ascoltare i miei lavori o lo invitavo ai miei concerti: la sua reazione, i suoi commenti erano per me preziosi e negli anni questo rapporto si è arricchito anche nell’opposta direzione: Piana mi invitava a leggere i suoi saggi di argomento musicale e, successivamente, mi proponeva l’ascolto anche delle sue composizioni, mostrando di apprezzare i miei commenti anche critici. Il nostro rapporto epistolare, discontinuo ma sempre intenso e una frequentazione che negli ultimi anni si era intensificata, avevano consolidato un sentimento di amicizia per me assolutamente prezioso. Nel 2017 la morte di mia madre – Maria Teresa Lanza, donna di lettere, di fatto l’unica persona della mia vita con una cultura e passione per le idee confrontabile con quella di Piana – si trovò a coincidere con il sorgere dell’interesse di Piana per Pascoli e la poesia. Gli scrissi di mia madre e dell’esistenza di due suoi saggi su Pascoli che potevano interessarlo e gli mandai il vo|lume che li conteneva. Lui li lesse e li apprezzò immediatamente, scoprendo un’affinità di sguardo che io ben immaginavo e un anno dopo, nel mandarmi il suo scritto Leggere i poeti. Note in margine a Giovanni Pascoli, lo accompagnò con queste parole:

Nel saggio cito anche tua madre, e come vedrai non si tratta di una citazione puramente formale! Mi sono trovato di fronte ad un discorso e in particolare ad un atteggiamento generale che non ho ritrovato altrove e che è strettamente prossimo a tutta la tematica che tratto in questo saggio. Di fronte ad una bibliografia che è non di rado vanesia e vaneggiante rispetto a Pascoli questo suo saggio sul fanciullino è stato per me come una boccata d'aria pura d'alta montagna (Piana 2018).

6Grande rammarico il mio di non averli fatti incontrare ma il suo saggio, in qualche modo, metteva le cose a posto.

Publication details

Published in:

Caminada Emanuele, Summa Michela (2020) Giovanni Piana. Phenomenological Reviews Special Issue 1.

Pages: 291-294

DOI: 10.19079/PR.s1.17

Full citation:

Lanza Sergio (2020) „Il segno lasciato“. Phenomenological Reviews 1, 291–294.