Phenomenological Reviews

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257435

Outline

1.2.3.4.

Contro il naturalismo, per una fenomenologia della musica

Dalla parte di Giovanni Piana

Riccardo Martinelli (University of Trieste)

pp. 249-259

Abstract

In his Philosophy of Music, Piana adopts a phenomenological perspective in the investigation of musical experience. Piana challenges the foundation of naturalism, an intellectual orientation which is deeply rooted in this subject matter since ancient times. In so doing, Piana opens up a road towards a pluralistic and anti-naturalistic approach, demonstrating the fruitfulness of phenomenology in this field. According to this perspective, music is neither applied physics nor neuroscience. Instead of trying to reduce it to something else, Piana investigates the deep phenomenological structure of our musical experience. His analysis leaves room for the role of different cultures and languages but highlights, at the same time, the common ground of any human meaningful experience with sounds.

Lines

1.

1Alcuni testi nascono in un momento storico che non è completamente adatto a riceverli e a comprenderli fino in fondo: ciò valga, senza alcuna retorica, per il libro di Giovanni Piana Filosofia della musica (Piana 1991). Nelle pagine che seguono cercherò di motivare questo giudizio alla luce della situazione generale della filosofia, e della filosofia della musica, nel momento in cui vedeva la luce il volume. Anticipando l’essenziale in e|strema sintesi, basti dire che in Filosofia della musica Piana adotta una prospettiva genuinamente fenomenologica che inizia con lo svellere i fondamenti del naturalismo: un atteggiamento intellettuale, quest’ultimo, radicato in modo particolarmente tenace in filosofia della musica.

2Con questa operazione, Piana coglieva diversi obiettivi simultaneamente, due dei quali meritano di essere qui sottolineati con particolare evidenza. 1) Nell’ambito di studi specifico, Piana spianava la strada a una concezione fenomenologica anti-naturalistica e pluralista (nel senso che verrà definito più avanti) della filosofia della musica. 2) Su un piano più generale, Piana mostrava così la fecondità dell'approccio fenomenologico proprio in un campo nel quale, per lo più, i ‘classici’ non avevano saputo che balbettare imbarazzanti banalità (anzitutto Husserl, per non dire di Heidegger).1 Inoltrandosi davvero, con competenza e passione, nell’essenza del fenomeno musica, Piana esibiva invece la fecondità del suo approccio restando felicemente lontano da fumosi tecnicismi lessicali e concettuali. E che il lavoro di Piana fosse immune dalle mode del tempo lo mostra anche il coraggioso e sicuro discernimento con il quale egli eludeva l’equazione secca tra neue Musik e fenomenologia,2 almeno nella forma generica e banalizzante tesa ad affermare (e spesso a sottintendere) che le parallele rivoluzioni del linguaggio musicale e di quello filosofico compiutesi all'inizio del Novecento non potevano non avere una matrice comune, sì da indurre ad additare in Arnold Schönberg una sorta di Edmund Husserl della musica (quando non viceversa), in un qualche modo da comprendersi meglio, semmai, in un momento sempre di là da venire.

3Chissà se il lettore di oggi coglie pienamente tutte queste implicazioni nella densa, ma lucida e (letteralmente) misurata prosa di Piana. I suoi paragrafi corrispondono ad arcate entro le quali si manifesta tutta e sola un’unità compiuta di senso: un ‘pensiero’ in un senso più pregnante di quello fregeano, ciò che un musicista chiamerebbe un respiro, e che qui diviene respiro della mente pensante. E respiro dopo respiro emerge ben presto per il lettore il disegno dell’operazione di Piana, che consiste nel non appiattire la fenomenologia della musica in una militanza a favore della scuola di Vienna o di qualunque altra forma storica concreta della musica, contemporanea o meno, senza per questo sottovalutare in alcun modo il problema della mutevolezza anche strutturale delle forme musicali. Senza negare, cioè, quella che Piana chiamava in modo illuminante l’apertura al nuovo della musica. La strada lungo la quale il libro accompagnava, passo dopo passo, l’aspirante fenomenologo della musica, doveva invece essere sufficientemente ampia, e paradossalmente altrettanto impervia, da abbracciare la musica in quella che possiamo chiamare la pluralità necessaria delle sue forme.

4Sia consentita al riguardo una parentetica annotazione personale. Nel 1991, quando apparve il lavoro in questione, avevo ventisette anni. Lo lessi a dire il vero qualche anno più tardi, ma comunque nella fase di quella che si può definire la formazione superiore di uno studioso, se è lecito che tale mi definisca. Ebbene, in una misura che ho compreso pienamente qualche tempo dopo, questo libro assieme ad altre fonti a me care indicava una strada che fin da allora mi è sempre parsa se non quella giusta in modo apodittico (ché questo non lo sapevo allora e confesso di non saperlo nemmeno adesso, a fronte di un tema così nobile e grande), comunque la strada sulla quale valeva la pena di addentrarsi. Se non ci fosse stato chi mi indicava quel percorso, cioè, più difficilmente avrei ritenuto che l’ambito della filosofia della musica potesse meritare un ruolo altrettanto rilevante, all’interno delle mie ricerche, di quello che poi ha avuto. In altre parole, fu assai importante per me (e immagino per altri) che lo scavo di Piana confermasse, indirizzandola nel darle forma e vigore, l’intuizione che la musica non sia un costrutto naturalistico basato sull’acustica dei suoni, su fenomeni armonico-tonali a loro volta fondati in una presunta relazione privilegiata con la matematica, ovvero su proprietà dell'orecchio o del cervello, proprietà oggettivabili e determinabili: ma viceversa in tutto e per tutto un fenomeno culturale. La musica, cioè, è frutto di una scelta, di un fare squisitamente umano e umanizzante: quel qualcosa entro cui il singolo, o il gruppo, si identificano nel mentre scelgono quasi nota per nota di aderirvi, di donare senso (più o meno consapevolmente) alla loro esperienza musicale. La musica non è matematica, né è fisica (o neuroscienza) applicata: o meglio, non più di quanto lo siano la pittura o la storiografia, il teatro o l’arte culinaria. E il libro di Piana mi offriva ossigeno, aria, apertura: una via d’uscita dalle angustie di quel naturalismo che proprio in musica, come poi dirò ancora, celebra da sempre alcuni dei suoi presunti trionfi. Non voglio dire, con questo, di aver poi seguito la fenomenologia della musica di Piana nel dettaglio specifico della sua pars construens (e men che mai intendo riparare le mie indagini sotto l’egida autorevole del suo pensiero), ma sono certo di potermi professare senza la minima forzatura dalla parte di Giovanni Piana contro il naturalismo e per una fenomenologia in filosofia della musica. In questo senso, in un lavoro recente, ho chiamato approccio ‘fenomenologico’ (in un’accezione invero ispirata dalle tesi di Aristotele e contestualmente più ampia di quella di Piana) la posizione che identifica il principale, salutare antidoto al dilagare del naturalismo.3

5Ma è senz’altro tempo di abbandonare i riferimenti autobiografici e passare all’analisi degli argomenti che autorizzano a sostenere le tesi che ho sopra introdotto.

2.

6Anzitutto: cos’è il naturalismo? Il lettore di cose fenomenologiche sa bene che in Husserl la polemica contro questo modo di atteggiarsi verso il mondo è fondamentale: il superamento del naturalismo ingenuo è condizione necessaria all’instaurarsi di una visione autenticamente fenomenologica. Si prenda, a titolo di esempio, un testo dalla funzione chiaramente essoterica come l’articolo per la rivista Logos intitolato La filosofia come scienza rigorosa. Nel secondo capitolo, dedicato appunto alla ‘Filosofia na|turalistica’, Husserl (2005, 13-70) non lesina attacchi – talora forse (a mio giudizio) persino eccessivi – all’atteggiamento naturalistico, soffermandosi in particolare sull’infausta naturalizzazione della coscienza e sui presupposti della psicologia scientifica. Lasciando cadere per ovvie ragioni di pertinenza queste pur affascinanti tematiche, in questa sede dobbiamo invece chiederci: che cos’è il naturalismo in filosofia della musica? Per comprendere adeguatamente il tema è necessaria una digressione di carattere storico, alla luce della quale si può comprendere la portata (come ho detto, notevolissima) del naturalismo in questo campo.

7Il pitagorismo viene frequentemente presentato come la principale risposta della filosofia alla domanda sulla natura della musica. Del resto, anche a livello di senso comune è frequente l’idea che la musica sia imparentata con la matematica in modo particolarmente significativo. Ma il pitagorismo non consiste solamente nella sottolineatura del ruolo del numero in relazione alla spiegazione del fenomeno musicale. Si parla talora di corrente pitagorico-platonica, con un’espressione che pur essendo da res|pingersi in sede storiografica per la sua eccessiva genericità, non è del tutto priva di una ragion d’essere in quanto sottolinea il ruolo fondamentale dell’elemento psicologico, con le sue implicazioni etico-politiche, in questo approccio alla problematica. Le proporzioni matematiche, tramite l’esercizio della musica, penetrano nell’anima giungendo quasi a impadronirsene, con un duplice esito possibile: l’instaurarsi di una virtuosa armonia nella psiche del soggetto, o viceversa il suo temibile e pericoloso stravolgimento. In questa prospettiva è già anticipato il duplice carattere, celeste o demoniaco, del musicale, destinato a grande fortuna in età medievale e moderna (cfr. Martinelli 2019, 5-15). Ebbene, non è sempre chiarissimo in letteratura il fatto che Aristotele abbia mostrato per primo la via di una netta alternativa alla prospettiva finora illustrata. Viene anzi talora suggerito che Aristotele si sia mosso al riguardo in sostanziale continuità rispetto al maestro Platone, limitandosi semplicemente a concedere maggiore spazio a una fruizione squisitamente estetica della musica. Una simile interpretazione non regge però a un’analisi rigorosa dei testi. In Aristotele si trova la prima chiara formulazione del fatto che la chiave del problema risiede nell’analogia tra la musica e il discorso verbale. Al centro dell’attenzione si colloca allora la voce (phoné), l’elemento entro il quale entrambi sono definiti. Certo, sarà poi l’allievo Aristosseno a formalizzare la duplice articolazione della voce nella parola e nel canto; ma è Aristotele a sviluppare le conseguenze filosofiche di questo spostamento dell’attenzione. Diversamente che nella tragedia, l’azione è rappresentata nella musica in modo solo analogico, di modo che la catarsi specificamente musicale appare più debole e viene resa in certo modo virtuale dalla presenza di infinite possibilità di riempimento di senso. Non per questo, però, la catarsi musicale risulta meno importante o efficace: anzi, sarebbe forse possibile argomentare in favore della tesi opposta (cfr. Martinelli 2019, 15-20).

8In breve, Aristotele mostra per primo la strada alternativa al natura|lismo musicale: ed è per questo motivo che gli riesce anche un’adeguata valorizzazione estetica della fruizione musicale. Non è difficile individuare in questi stilemi del pensiero antico dei modelli che ispireranno lungamente il dibattito. Generalizzando opportunamente e volgendo in senso consapevolmente teoretico le indagini sopra riassunte, potremmo convenire di chiamare coi nomi di naturalistico e fenomenologico i due indirizzi fondamentali del pensiero filosofico sulla musica fin qui designati come pitagorismo e aristotelismo.

9È infatti piuttosto comune, nel dibattito filosofico odierno, indicare come ‘naturalistiche’ tutte quelle teorie che, nei diversi campi, demandano a una trattazione scientifica la soluzione di un qualche problema. In quest’ottica si potrebbe sostenere senza difficoltà che per quanto riguarda la filosofia della musica Pitagora sia stato il primo di una lunga serie di na|turalisti. Va da sé che le forme storiche del naturalismo cambiano assieme all’evolversi del pensiero e delle conoscenze scientifiche (sicché le spiegazioni dei pitagorici, di un Mersenne, di Leibniz o di uno Helmholtz differiscono nel concreto in misura assai marcata) ma il punto rilevante è che esse risultano tutte riconducibili a una prospettiva unitaria. Si comprende allora, in filigrana, in che senso vada intesa anche l’opposizione al natura|lismo, la quale assume anch’essa forme storiche diverse nel tempo, in un’analisi che è comunque accomunata da alcune costanti. Per amor di chiarezza, va detto che si dovrebbe qui prendere il termine ‘fenomenologia’ nella sua accezione più ampia, diffusa nel dibattito contemporaneo anche in area analitica, dunque ben oltre i limiti della fenomenologia husserliana. Quello che caratterizza questa posizione è l’idea che si debba collocare la questione entro un campo fenomenico, definibile in primissima istanza in relazione all’intenzionalità. Nel caso in esame, il riferimento è al suono che si fa musicale nel momento in cui diviene oggetto di un’intenzionalità per così dire secondaria o riflessa. D’ora innanzi esso non conta più quale oggetto del mondo: il suono musicale è rigorosamente de-naturalizzato.

10Naturalmente, le strategie di opposizione al naturalismo da parte della fenomenologia musicale sono molte e non è questa la sede per riassumerle. Dopo questa necessaria digressione torniamo invece al volume di Piana. Combattere il naturalismo in filosofia della musica, come abbiamo visto, significa opporsi a una dottrina straordinariamente efficace, che in ogni tempo ha raccolto una messe (probabilmente maggioritaria) di consensi. Con quale strategia si accingeva Piana a contrastare questo colosso teoretico?

3.

11Non avremo «propriamente di mira la contemporaneità» scrive Piana; viceversa, «la nostra vuole proprio essere soltanto una riflessione filosofica sulla musica in genere, e perciò siamo interessati soprattutto alle questioni di principio che non si sviluppano a contatto di problematiche particolari» (Piana 1991, 14). Come si è anticipato, Piana disinnesca le identificazioni sbrigative in modo consapevole ed esplicito.

Particolarmente erronea è l’idea che a porci su quella via sia la riflessione sulle vicende più recenti della musica. Al contrario è necessario rendersi conto fino in fondo che quando, a partire da considerazioni sulla musica, assumiamo quell’orientamento e quell’impostazione non facciamo altro che applicare un vero e proprio schema filosofico già pronto, la cui adeguatezza ed efficacia per gli scopi di una filosofia della musica non può affatto essere accettata come un’ovvietà, ma deve essere messa alla prova (Piana 1991, 45).

12In altri termini, Piana non muove dall’ipotesi che la riflessione sulla neue Musik possa mettere sulla strada giusta la fenomenologia della musica; ma neppure cade nella trappola del cercare l’essenza assoluta (al singolare) della musica (al singolare). L’equilibrio che Piana ci invita a mantenere, piuttosto, è quello che si instaura tra identità dell’esperienza e variabilità della forma: una virtuosa dialettica tra la «rivendicazione di un punto di vista dal quale la mu|sica stessa possa essere abbracciata nell’effettiva molteplicità delle sue forme» e l’idea «della totale accidentalità di ogni rapporto, dalla critica dell’essenza al dominio della convenzione, dall’affermazione dell’inesistenza di un luogo centrale dell’universo della musica ad una concezione di questo universo come un puro agglomerato di fatti dispersi» (Piana 1991, 21-22).

13Dall’intersezione ponderata di queste esigenze nasceva nel lavoro di Piana un pluralismo, come sopra si diceva, non caotico ma tuttavia chiaramente de-essenzializzato ed acentrico:

[…] l’apertura al nuovo sembra infatti esigere in via di principio l’abbandono di considerazioni centralizzate, cioè di considerazioni fondate sulla convinzione dell’esistenza di criteri e di regole che possano pretendere di occupare una posizione centrale all’interno dell’universo musicale. Questo universo consta unicamente dei fatti della musica e in esso non vi è alcun centro. A quei fatti dunque occorre soprattutto guardare, e con quell’assenza di pregiudizi che diventa effettiva solo quando essa è accompagnata dalla piena consapevolezza della forza del pregiudizio, della resistenza che l’‘abitudine’ oppone al ‘nuovo’ (Piana 1991, 22).

14E si comprende allora un punto fondamentale, sul quale ogni insistenza è sempre insufficiente, che indirizzava il lavoro di Piana in una direzione promettente, conferendo alla sua consapevole ‘apertura al nuovo’ una dimensione cosmopolita nel migliore senso della parola, capace di ascoltare e dare cittadinanza anche a quanto non necessariamente parla la nostra lingua. Mi riferisco alla presenza, ben documentata a livello dei fondamenti teorici della riflessione di Piana, dell’elemento etnomusicologico: non in veste di banale omaggio di rito all’alterità, ma come problema che conduce a smontare l’apparente ovvietà insita nelle immancabili teleologie dei naturalisti.

15Per il naturalista, infatti, risulta pressoché obbligatorio ammettere che esistono tipi di musica che corrispondono meglio di altri al sistema dei suoni (per es. degli armonici, o delle risonanze simpatiche) a partire dalle quali si costituirebbe in ipotesi il fenomeno musica.4 La musica tonale, in quest’ottica, finisce inevitabilmente con l’essere considerata non solo ‘naturale’, ma più naturale e dunque assiologicamente migliore di altre musiche, come quelle fondate su divisioni non tonali della scala, e via discorrendo. La musica europea còlta diviene allora la musica giusta e ‘perfetta’ in quanto portatrice di un inconcusso contenuto di verità; mentre le musiche ispirate ad altri ordini e princìpi regrediscono sullo sfondo quali balbettii privi di spirito e gusto, curiosità museali da tollerarsi o magari esibire per amor di esotismo, ma sempre in dosi per carità limitate.

16Le citazioni che Piana inserisce dal volume di Curt Sachs Le sorgenti della musica non sono meri orpelli, ma contribuiscono alla sua impostazione del problema in modo essenziale.

In tutto il mondo, dagli Esquimesi agli abitanti della Terra del Fuoco, dai Lapponi ai Boscimani, la gente canta, urla, mugola con voci selvagge o monotone; grida e mugola, nasalizza e vocalizza; squittisce e ulula; scuote sonagli e percuote tamburi. La gamma dei suoni è limitata, gli intervalli diversi, le forme di respiro brevi, la capacità inventiva apparentemente ridotta e i limiti assai marcati. È possibile chiamare tutti questi rumori con il nome di musica, se la parola musica è la stessa che designa la sacra arte di Bach e di Mozart? (Sachs 1979, 224).

17Questo scriveva Sachs, citato da Piana il quale commenta:

Con questa domanda si apre l’ultimo capitolo del libro di Curt Sachs, Le sorgenti della musica, che è anche l’ultima sua opera, pubblicata postuma nel 1929. Il grande cammino della sua ricerca e della sua riflessione si conclude così sul tema dell’altra musica, della molteplicità dei linguaggi e dei problemi posti dall’assunzione di un punto di vista unitario (Piana 1991, 38).

18Cosa dire allora di questa forma di apertura al nuovo, all’alterità in musica? Diversamente dal naturalismo, la fenomenologia della musica consente di dare risposta a questo interrogativo. Scrive Piana:

Una melodia esquimese, ad esempio, nonostante la sua elementarità e rudimentalità, non è qualcosa di meno progredito di qualunque capolavoro della cultura musicale europea, ma è anzitutto una musica che presuppone una modalità dell’esperienza musicale interamente diversa. Il dubbio posto sul tema del progresso riporta l’accento sulla molteplicità dei linguaggi della musica, ma secondo un’inclinazione nella quale avvertiamo fin dall’inizio emergere come un problema la possibilità di stabilire un nesso tra ‘giochi linguistici’ che sono radicati in ‘forme di vita’ interamente diverse (Piana 1991, 39).

19Apparentemente, questo riconoscimento comporta anche una limitazione: io posso riconoscere e apprezzare delle opere della mia cultura, della mia ‘forma di vita’, tu comprenderai e apprezzerai quelle della tua. Di qui gli immarcescibili aneddoti su opere musicali occidentali presentate a musicisti di altre tradizioni, episodi che costituiscono il pendant tonale dell’episodio altrettanto vago e improbabile del ‘selvaggio’ che rigira tra le mani un ritratto fotografico senza comprendere che quella che vi viene rappresentata è una persona.

20Sembrerebbe dunque rientrare in gioco, non per virtù ma per colpa del détour etnomusicologico, un’atomizzazione del discorso musicale che rende impossibile l’operazione del filosofo polverizzando la musica in una miriade di micro-giochi linguistici entro i quali non si saprebbe trovare un punto di unità. Ma questa difficoltà è solo apparente. Il richiamo al livello che Husserl in Erfahrung und Urteil chiamava ‘antepredicativo’ – applicato al caso specifico delle musica, dove potremmo forse ribattezzarlo antemelico – consente di esibirlo nel modo più chiaro. Scrive Piana:

Le formazioni di senso con cui abbiamo a che fare sono […] oggettività culturali integrate in una tradizione e che debbono essere colte e afferrate in questa integrazione, in questa loro essenziale storicità. Ma queste opere di cui consta la musica constano a loro volta di suoni, esse sono alcunché di reale in quanto sono costituite di questo determinato materiale percettivo, che ha in se stesso, come noi stiamo sostenendo, prima che una qualunque elaborazione lo faccia rivivere all’interno dell’opera musicale, le sue determinazioni e differenze caratteristiche, le proprie qualità specifiche che stanno a fondamento di molteplici modalità possibili di connessione e di rapporto. In queste stesse qualità e caratteri e nella rete di relazioni che sorgono sulla loro base si innestano direzioni e tensioni immaginative che conferiscono al materiale sonoro stesso la sua molteplice latenza espressiva (Piana 1991, 58).

21Vi è dunque un piano linguistico, ma anche un piano prelinguistico, nel quale rientra in gioco l’universo sonoro con le sue irriducibili specificità fenomenologiche. Il richiamo non può allora che andare all’apriori materiale del campo sonoro, con la sua curvatura specifica e con tutte le sue caratteristiche. Ancora Piana:

Potremmo parlare addirittura di veri e propri a priori fenomenologico-strutturali […] per richiamare l’attenzione sul fatto che su quella formulazione non vi è nulla da ridire se la parola ‘a priori’ viene strettamente intesa nel quadro della tematica esposta. Sarà allora difficile fraintendere il nostro problema come se si trattasse di proporre schemi di giudizio di cui non si è in grado di indicare il fondamento – questo è all’incirca il senso in cui si parla negativamente di ‘apriorismo’. Si tratta invece di penetrare nella natura della materia sonora e di indagarne le peculiarità fenomenologiche in modo da dispiegare ed esibire il campo di possibilità aperto all’azione compositiva (Piana 1991, 58).

22I suoni, in questa visione, sono possibilità offerte al compositore e per il tramite di questo all’ascoltatore: possibilità dinamiche che contengono elementi di tensione, in un brulicare di attrazioni e repulsioni che non derivano dalle loro proprietà fisiche. Infatti, «il parlare di possibilità non solo richiama l’idea di una potenzialità non realizzata, ma propone soprattutto l’azione realizzativa come un’azione che decide. Quando parliamo di sensi precostituiti dunque intendiamo affermare che ciò che viene precostituito è soltanto l’ambito delle alternative possibili per una decisione» (Piana 1991, 61-62).

4.

23Di qui in avanti la proposta di Piana dispiega il suo valore imboccando il suo itinerario specifico: quello che emerge nella musica è una «soggettività che prende decisioni», e si comprende allora che «linguaggi differenti sorgono da decisioni differenti» (Piana 1991, 63). E questo richiamo così chiaro e inequivoco all’attività libera del soggetto che sceglie, autentica chiave di volta per comprendere cosa accade nella composizione e nella fruizione musicale, toglie di mezzo le sinistre graduatorie (quasi sempre non solo estetiche) dei naturalisti: «[…] il fatto che si possa parlare di natura (fenomenologica) del suono non implica la legittimazione di un linguaggio come più o meno naturale di un altro » (Piana 1991, 63). Giunta a questo punto, la presente analisi deve arrestarsi. Ma è da qui che si può e si deve partire per seguire l’itinerario specifico proposto da Piana lungo le dimensioni della materia sonora, del tempo, dello spazio e del simbolo.

24A mo’ di conclusione non posso esimermi dal riprendere anch’io le parole di John Cage (1971) che Piana, facendole proprie, poneva a suggello del suo capitolo introduttivo. Parole che suonano per noi, non solo come fruitori di musica ma anche e soprattutto come filosofi, come un invito a non abbandonare mai il piano dell’esperienza:

‘Mi ricordo di aver amato il suono prima di aver preso una sola lezione di musica’. Questa frase di John Cage formula quel pensiero e nello stesso tempo indica, per noi, il punto da cui una filosofia della musica può avere inizio (Piana 1991, 64).

    Notes

  • 1 Sul tema si vedano: Mazzoni (2004, 15-23) per quanto riguarda Husserl e Mazzoni (2009) per quanto riguarda Heidegger.
  • 2 Persino un grande musicista e intellettuale come Luigi Rognoni non è alieno, occasionalmente, dal suggerire simili analogie.
  • 3 Cfr. Martinelli (2018 vii s.). Le considerazioni sviluppate nel prossimo paragrafo del presente lavoro sono in parte ispirate a quelle pagine. Di questo testo è uscita una precedente versione italiana (Martinelli 2012), ma le considerazioni cui faccio qui riferimento sono nelle aggiunte all’edizione inglese del 2019.
  • 4 Ho trattato di questo tema in Martinelli (2014), mostrando come il concetto fenomenologico di Tonveschmelzung elaborato da Stumpf spinga la scuola etnomusicologica di Berlino in una direzione diversa.

Publication details

Published in:

Caminada Emanuele, Summa Michela (2020) Giovanni Piana. Phenomenological Reviews Special Issue 1.

Pages: 249-259

DOI: 10.19079/PR.s1.14

Full citation:

Martinelli Riccardo (2020) „Contro il naturalismo, per una fenomenologia della musica: Dalla parte di Giovanni Piana“. Phenomenological Reviews 1, 249–259.